I ragazzi che vivono nell’agonismo di alto livello oggi, dovendo generalizzare, sono mediamente difficili da gestire sia singolarmente che in gruppo, pensano che tutto gli sia dovuto, sono narcisisti (il narcisismo è la malattia del secolo), sono egoisti, dispersivi, pigri. Quando tu chiedi loro perché giocano, ti rispondono che vogliono diventare numero 1, fare soldi come Djokovic o Nadal, tirare forte come i campioni che vedono in tv o anche sui campi se sono già molto bravi, chiedono di “lavorare” in un ambiente stimolante, che li gratifichi e li faccia sentire importanti, e vogliono “lasciare il segno”. In giro per l’Europa associano la bellezza del torneo o della competizione che affrontano alla comodità che il torneo stesso prevede: player lounge comoda, wi-fi, stanze dell’albergo confortevoli, un buon cibo, campi curati e disponibili. E’ sbagliato? No, è corretto. In molti casi i tornei sono organizzati molto bene (in altri onestamente no), i giocatori sono rispettati e considerati la parte importante dell’organizzazione, i prize money per quanto migliorabili sono pagati puntualmente. A parte qualche eccezione spiacevole è sempre così. E allora perché molti di loro, direi la maggior parte, non sono felici? Per quello che vedo manca loro un pezzo del puzzle dell’atleta e dell’uomo in genere affinchè possano essere felici. Sono forti fisicamente, hanno corpi quasi perfetti; sono tecnicamente capaci di fare qualsiasi cosa con la racchetta o con l’attrezzo, sanno capire in meno di 5 minuti come affrontare un avversario sul campo, sapendo gestire le strategie o cambiarle di conseguenza, tutti loro sanno resistere alle pressioni in campo meglio di un ragazzo medio della loro età nella stessa situazione emotiva, sono pure già più maturi della media. Eppure manca un pezzo per il raggiungimento di quello stato psicofisico corretto per una felicità di fondo, per una energia totalizzante.
Questo pezzo del puzzle è scomponibile a sua volta in 4 parti:
La prima sono i GENITORI, siamo noi, sono genitore anche io e non meno superficiale o debole di altri a volte. I ragazzi di questa generazione che potremmo considerare come i nati dal 1990 ad oggi, sono cresciuti per la maggior parte di loro, sotto l’effetto di strategie familiari di educazione fallimentari. Quanti hanno genitori separati, con conseguenti difficoltà dovute alla separazione dei genitori in età evolutiva emozionale di base? Quanti bimbi o ragazzini, in fase di sviluppo della consapevolezza di se, conosciamo che debbono dividersi tra mamma e papà, magari in città diverse, e soprattutto sopportare il fardello di “cappottoni biblici” contro l’altro genitore incapace, cattivo, inetto, egoista. Cosa può mai fare un bambino per “salvarsi” se persino dai genitori arriva il messaggio che le emozioni sono foriere di dolore? Cosa può inconsciamente pensare? Meglio chiudermi o aprirmi al mondo? Ma, direte voi, ci sono anche esempi positivi tra i genitori, che vanno d’accordo, che danno una stabilità emotiva, e anche pratica, ai ragazzi. Vero. Eppure il genitore tipo moderno, in contrasto con quello eccessivamente “normativo” o “correttivo” di molti anni fa (che ne ha fatti di danni pure lui), ha sviluppato un modus operandi che è fuorviante per i ragazzi, e che vediamo anche tra noi educatori o istruttori, io in primis: si tende a dire che il ragazzo è speciale, incoraggiandolo, sempre. Anche se fa male una cosa. Ok, nessuno di noi incoraggerebbe la maleducazione, e nemmeno il mancato impegno. Ma al netto di bimbi o ragazzini educati e impegnati, stiamo lì a lodarli. Troppo. Perché troppo? Perché purtroppo nella vita non è così. Sarebbe così una società ideale, dove non esistesse la concorrenza. E’ così in un mondo da noi promosso come possibile, ma che poi non è. Quando questi ragazzi entrano ad esempio in un ambiente diverso da quello creato artificialmente da noi, dove sono premiati il traguardo, l’impegno, il rispetto per il prossimo e il sorriso, si trovano smarriti. Un esempio è il passaggio da Junior a Pro nel tennis. E il problema non è solo tecnico o atletico, di livello sportivo per intenderci: il problema vero è che fino a quel momento l’atleta voleva sì vincere, ma gli si diceva che con la volontà si poteva raggiungere qualsiasi traguardo. Non basta la volontà a volte. Finisca una volta per tutte questo mito. Noi Genitori siamo lì a sostenere questo falso mito della volontà che tutto può. E’ ovvio che si debba premiare e incoraggiare il bimbo che infonde la massima energia in quel che fa, è palese che non si debba frustrare il tentativo di riuscita di un ragazzo, ma va trovata (a seconda dell’età evolutiva del ragazzo stesso) la spiegazione alla frase: “puoi avere tutto. Basta volerlo.”. Se parli con un cinquantenne puoi essere anche così sbrigativo. Lui capirà. Ne ha passate già tante, non c’è bisogno di dirgli che è un modo di dire. I ragazzi invece, anche se già fenomeni con la racchetta o dentro una vasca, sono assai più condizionabili, non potendo filtrare le parole attraverso l’esperienza. Ho sentito moltissimi VALIDISSIMI allievi o under 18 top dire: “io lavoro il doppio del numero 1, sono disposto al doppio del suo sacrificio, e quindi lo supererò.”. Non funziona così baby, nonostante apprezzi davvero tanto queste parole da un certo punto di vista: solo che manca un tassello. Non possiamo controllare tutto nella nostra vita ma i ragazzi non lo sanno. E a volte non ce lo ricordiamo nemmeno noi. La nostra società attuale, quella anche avanzata, di classe sociale elevata, cosa tende a fare fino dalle prime esperienze di sport o di nucleo sociale dei piccoli? Diamo medaglie a tutti. Lo faccio anche io eh, al centro estivo ho premiato tutti. Sia chi vinceva il torneo, sia chi non ha preso mai la pallina. Però mi sono detto che questo da una parte sviliva il premio, dall’altra non motivava i migliori. Allora ho trovato un rimedio: a tutti i premi, ma una comunicazione personale ad ognuno di loro. Non è facile trovare il tempo e la chiave per comunicare ad ogni bambino, ad ogni santo bambino, che può fare meglio e trovare piacere da quello che fa. E’ per questo che per non fare l’errore dei nostri nonni, noi educatori, genitori o altro, finiamo per premiare tutti. Per non frustrare nessuno, rischiamo di svilire. Una medaglia per chi arriva ultimo è una cosa corretta? Chi arriva ultimo va aiutato a sentirsi in grado domani di arrivare primo, non dargli solo una medaglia. Ok, anche io la dò, perché è più semplice, perché mi scarica la coscienza, perché mi rivedo in quel ragazzino che arrivava ultimo e non se lo cagava nessuno e tendo a dirmi: “beh dai, almeno tu lo rinforzi un po’”. Però gli sto facendo un favore? Me lo devo chiedere e decidere, perché poi come sappiamo ogni bimbo è diverso così come è diversa ogni situazione. Ma quanti di noi si fermano a chiedersi ad ogni scelta se è quella giusta? Quante energie ci vogliono? Quando questi ragazzini diventano più grandi succede che l’ultimo verrà proprio scartato, quelli medi non avranno mai una medaglia, solo il primo emergerà, e non è nemmeno detto. E come potranno sentirsi? Quando non c’è più il papà o il bravo maestro a rinforzare la loro stima di sé con un pezzetto di latta da 2 euro o un gesto affettuoso? Quando entrano nella società spietata, come può essere il mondo dello sport PRO, l’idea di sé di questi ragazzi va in frantumi. Letteralmente. Cercano al di fuori appigli emotivi per resistere alla frustrazione, e non è detto che ne trovino o che siano quelli giusti. Ripeto: il duro lavoro non basta. E’ condizione necessaria, ma non sufficiente a volte. Se arrivi ultimo non ti danno un premio. E questa è una chiave di lettura per capire il perché di generazione che cresce con una autostima insufficiente.
La seconda parte del puzzle è la TECNOLOGIA. Tutto quello che ho scritto sopra finisce con l’essere amplificato enormemente dai social network e dalla tecnologia in genere. Pensate a facebook o instagram, dove la vita è bella anche se siamo depressi, dove possiamo essere i duri anche se siamo degli agnellini, dove sembra che sappiamo tutto basta condividere un video che ci è piaciuto, dove mettiamo dei like e riceviamo dei like e quelli sono il segnale che esistiamo. E anche attraverso i social media abbiamo una modulazione diversa dalla realtà della nostra autostima. E’ un doping. E diventa una dipendenza. Per i nostri ragazzi molto più di noi. E che colpa hanno? Sono nati con in mano il cellulare. Chi glielo ha messo in mano? Noi. Lo ripeto io sono genitore e centinaia di volte ho già dato a mia figlia il cellulare a 4 anni affinchè lei vedesse i suoi video e io fossi libero di fare ciò che avevo in mente di fare. Lei ha un bisogno? In questo caso di non annoiarsi. E io glielo risolvo. E il problem solving? Deve arrivare a 30 anni per fare un corso ed impararlo? Vuoi vedere i Pjmask? Eccoli. Vuoi la dance dell’estate? Eccola. Ne riparleremo nel tema della pazienza. Ora concentriamoci sui social e la tecnologia: è stato studiato che attraverso l’interazione su facebook o instagram o chat varie il nostro organismo sviluppa una sostanza che determina uno stato di piacere (semplifico): la dopamina. Per questo quando vediamo un apprezzamento per un nostro post, quando qualcuno ci scrive e ci saluta, quando ci dà la sensazione (magari fallace, illusoria) di interessarsi di noi e ci sentiamo importanti, attraverso un qualsiasi social media con il nostro smartphone, abbiamo un senso di piacere. Semplicissimo. E’ il nostro corpo che si sente meglio. Ci scappa un sorriso. La nostra testa, la razionalità, sa benissimo che una persona ha messo un like investendo un solo secondo della sua vita, quindi niente, o ci ha fatto gli auguri perché su facebook gli è arrivato il messaggio, o ha letto distrattamente il nostro commento su Wimbledon e l’ha trovato interessante, quindi sappiamo bene che conta meno di zero come reale relazione umana ma…ci dà piacere. E il piacere è qualcosa che non proviamo così spesso. E’ la dopamina signore e signori. Per i ragazzini una amicizia tolta su facebook è una tragedia. Perché il loro corpo secerne dopamina ancora più velocemente di noi, in maniera quasi meccanica, rendendo compulsivi i ragazzi in tal senso. Diventa una droga, come l’alcool, come le scommesse, come il fumo. Quando diventano più grandi i ragazzi, come noi adulti, riusciranno a distinguere razionalmente il vero amico da quello di facebook, la vera relazione da quella illusoria ma…l’aggancio con la dopamina resterà sempre. Non saranno le reali emozioni a comandare il gioco, le proprie emozioni, i sogni e quant’altro, ma qualcosa di esterno. Il like. L’approvazione del mondo. E’ per questo che parlando con centinaia di ragazzi professionisti nel tennis e in altri sport la loro ricerca è spesso quella dell’approvazione esterna. Hanno cominciato con i papà e le mamme legando l’approvazione (il vincere o il giocare bene) all’affetto (gioco bene quindi mi vuoi bene, quando gioco male o non mi impegno non mi vuoi bene), e continuano nella adolescenza con la provenienza esterna dell’approvazione. Ci sono limiti di età per bere, per fumare, per scommettere, per prendere medicinali ma…non c’è limite di età per diventare dipendenti dai social o dagli smartphone. E’ una dipendenza che si insinua nell’anima, nelle sensazioni, è subdola. Te ne accorgi solo quando sali sul ring della vita. Nessuno di noi darebbe mai ad un bambino una sigaretta, o un conto scommesse, o un superalcolico, ma diamo invece lo smartphone senza preoccuparci di questi aspetti. Tutti diciamo ai nostri figli “e basta con questo cellulare!”, vero o no? Ma quanto lo consideriamo davvero pericoloso? Una intera generazione che vive un intorpidimento che crea dipendenza da sostanze chimiche attraverso computer e smartphone!. Non è inusuale vedere ragazzi che sotto alto stress (ad esempio prima di una gara importante) abusino del cellulare. Alla ricerca di conferme e di dopamina. E’ un riflesso condizionato quanto quello di alcuni di noi che apriamo il frigorifero. E’ il male quindi la tecnologia? Certo che no! È utilissima, se usata nel modo giusto, è terribile se diventa un’ancora per la sopportazione dello stress. Cosa fa un giovane tennista se perde 5 primi turni di fila? Ha un grosso stress e come lo abbiamo allenato a questo? Cosa fa un ragazzo? Trova le risorse in se stesso? O in un dispositivo? In questo senso associare una sensazione di piacere ad una macchina è qualcosa di completamente e drammaticamente pericoloso. Percepire la tecnologia invece come un acceleratore della conoscenza, come uno strumento nelle nostre mani per poter comunicare principalmente DATI e meno EMOZIONI, è sano e positivo e come tale va incoraggiata. La statistica ha sentenziato che chi passa più tempo su facebook ha più alti livelli di depressione.
E’ per questo che sarebbe auspicabile tenere fuori il cellulare dalle riunioni, dalle cene, da incontri con persone che sono presenti dal vivo con noi, non tanto e non solo per rispetto di chi ci sta vicino quanto per lanciare un messaggio chiaro ai nostri figli. Personalmente mentre sono in campo ad insegnare e mi sto relazionando con qualcuno il cellulare non esiste (diciamo che è silenzioso e non leggo i messaggi). Siamo io e lui o lei. Voglio sentire gli odori, i suoni, percepire gli umori, le gioie, le paure, il dolore o la rabbia di chi mi sta vicino, e mi piacerebbe che lui o lei facessero altrettanto. Ce l’ho in tasca il cellulare, non vivo in un altro mondo eh, sono figlio anche io di questa epoca del “connessisempre”, ma bisogna sforzarsi. Eppure nonostante io dica tutto questo è così difficile! E’ difficile per noi adulti, figuriamoci per i ragazzi! Siamo a cena e…non riusciamo a mettere via il telefono anche se vorremmo farlo. Ci diamo una spiegazione, che suona molto come una scusa. La mamma anziana, la figlia fuori col ragazzo, il marito che non trova i calzini, il capo che vuole che sia reperibile, il cliente da soddisfare. Hai voglia quante ce ne abbiamo. E sapete perché facciamo così? Perché ne siamo dipendenti. La mamma se la cava bene da sola, nostra figlia si diverte col fidanzato, il marito è la volta buona che apre il cassetto giusto che non è difficilissimo, il capo se ne farà una ragione e il cliente chiamerà domattina. Non sono loro il problema, siamo noi. E vogliamo poi che i nostri giovani atleti abbiano la forza di perdere 5 partite di fila e andarsi ad allenare duramente, che siano “resilienti” se noi per primi non riusciamo a metter via un pezzo di plastica? Quanti di voi si svegliano e la prima cosa che fanno, prima ancora di dire buongiorno alla moglie e di dare un bacio al figliolo, è guardare il cellulare? Se lo fai hai una dipendenza. Tu adulto la sai gestire più o meno, ma un adolescente no. E un adolescente o un giovane atleta di livello alto che deve dare una performance elevatissima non può avere nessuna dipendenza. Non prendiamocela con i tecnici, con le federazioni, con i ragazzi, pensiamo a noi stessi come genitori.
La terza è la PAZIENZA. Abbiamo detto sopra che abbiamo una generazione che produce ragazzi con poca fiducia in sé stessi, che non ha i mezzi per affrontare gli stress cercando soluzioni estrogene, ora veniamo al senso di impazienza. Sono cresciuti questi ragazzi in un mondo di gratificazioni istantanee. Vuoi comprare qualcosa? Vai su Amazon e click. Il giorno dopo arriva. Vuoi vedere un film? Ti loggi e vedi il film, non devi nemmeno andare a vedere gli orari ormai. Gratificazione istantanea. Vuoi un appuntamento? Più facile trovarlo in Chat o su facebook, piuttosto che facendo le “vasche” o lo struscio in centro come qualche anno fa. Fatichi meno, ti metti meno in gioco, superi gratis le paure di non piacere perché puoi fingere di essere chi vuoi e soprattutto è Veloce. Puoi flirtare con decine di persone in pochi minuti. Veloce. Rapido. I meccanismi sociali vengono velocemente superati, bypassati, puoi ottenere tutto quello che vuoi velocemente. Gratificazione immediata. E torniamo ai nostri ragazzi. Agli atleti. Vincono un torneo di “quarta”, o anche maggiore e la prima cosa che cercano è ricevere gratificazione esterna immediata. Whatsapp con 300 messaggi. E succede! Succede perché scrivere un whatsapp è veloce, ma c’è vero FORTE scambio di emozione? Solo in pochi casi. Veloce, anche sincero spesso, ma non FORTE. E quindi non stabile. Non duraturo. Al contrario per gratificazioni reali sul lavoro (per molti ragazzi fare l’atleta è un lavoro), stabilità di relazioni, non c’è una APP, c’è bisogno di processi lenti, a volte oscuri, spiacevoli anche, incasinati, complicati. Mi capita così di frequente di incontrare ragazzi nei tornei o nelle competizioni più disparate, atleti forti, intelligenti, piccoli o già affermati campioni, sensibili, belle persone, lavoratori in campo ai quali chiedo “come va”? Se ci sono altre persone vicino mi rispondono “bene, tutto ok, a te?”. Ma quando entri in intimità mi è capitato così sovente di sentirmi dire: “Ale, non lo so. Non so che fare. Forse mi rimetto a studiare, forse seguo mio padre nel suo lavoro, è un periodo un po’ così”. E badate bene, parlo di gente forte eh, che ha impegnato 15 anni della propria vita per diventare un atleta di livello. Allora io rispondo: “ma perché?”. “Perché sono fermo in classifica da 2 anni, alla mia età gli altri sono già 200 del mondo, non sto lasciando un segno, così non ha senso.”. Ciò è figlio del concetto di tutto e subito. Vedono la cima della montagna, ma non vedono la montagna, o meglio sono spaventati dalla montagna. Qualcuno ha già detto che ciò che rende uomini forti non è il punto di arrivo, ma il percorso che fai. Ed è assolutamente così. E siamo sicuri che noi come genitori o educatori non incoraggiamo il pensiero perverso di darsi dei tempi scanditi troppo drasticamente? Ho sentito spesso dire ai figlioli: ”ti do 3 anni di tempo.” Può essere una spada di Damocle questa frase, seppur sensata nella logica genitoriale. Quello che deve imparare questa generazione è il concetto di PAZIENZA, che non è sopportazione passiva si badi bene, ma è ampiamente attiva, tendendo a migliorarsi continuamente senza perdere in motivazione se questo non avviene in tempi rapidi. Esempio pratico: voglio migliorare il mio servizio perché faccio 2 ace l’anno, e nel gioco moderno i primi colpi sono essenziali. Provo nuove soluzioni biomeccaniche, cambio la posizione dei piedi, ma gli ace non arrivano, non arrivano. Se ho pazienza riprovo, mi esercito, riprovo, mi esercito ancora, eppure continuo a fare 2 ace l’anno. Provo varie soluzioni ma per un motivo o per l’altro non riesco. Ho avuto pazienza? Sì, ne ho avuta ma non è bastato. E allora subentra il concetto di Pazienza Resistente. L’obiettivo era quello di migliorare i colpi iniziali, per cui posso provare a vedere se e come variare il mio servizio per pormi in una situazione di vantaggio all’inizio dello scambio, oppure cambiare il primo colpo pur dopo un servizio non fenomenale, e così via. Questa è la Pazienza Resistente. E ciò significa che un’atleta, al netto di infortuni gravi o situazioni indipendenti dalla sua volontà, può migliorare all’infinito. Non c’è alcuna certezza che ciò avvenga, sia chiaro, lo abbiamo detto all’inizio, non è vero che la volontà può tutto, è una balla colossale, ma la Pazienza aiuta e aiuta tanto. E aiuta nello sport quanto nella vita fuori da un campo di gioco, aiuta nell’Amore, nella vita professionale di qualsiasi tipo e livello, porta alla felicità, dà sicurezza in se stessi, infonde fiducia: la Pazienza è la base della vita. A volte si possono accelerare dei programmi, utilizzare obiettivi a breve termine, ma un processo completo ha bisogno di tempi lunghi, le accelerazioni sono importanti quanto le pause, il cammino è arduo e lungo e difficile. Devi accettare, nel concetto di Pazienza, che puoi non farcela da solo, che può capitare di chiedere un aiuto, che -di nuovo lo ripeto la volontà non può tutto- che devi essere disposto anche a darlo l’aiuto, altrimenti da quella montagna ci cadi di sotto. Uscendo solo un attimo dal pensiero sugli atleti da alta performance e allargando il discorso ai giovani in generale: sapete perché il tasso di suicidi sta aumentando in maniera clamorosa tra alcune classi sociali? Perché la Pazienza Resistente non fa più parte abbastanza del DNA culturale di questa generazione, legata al concetto del “tutto e subito”, o nel migliore dei casi del “molto e presto”. Sempre più ragazzi lasciano la scuola o non cercano nemmeno lavoro, sono dati di questi giorni e questo è dovuto ad una depressione indotta. Nella migliore delle ipotesi rischiamo di avere una generazione che non troverà la vera felicità. In questo discorso invito tutti a vedere il film di animazione “Trolls”, in cui attraverso una metafora semplice (il connubio tra la pazienza resistente del personaggio di Branch e la creatività e la positività del personaggio di Poppy) e musiche azzeccatissime si possono rivedere alcuni concetti espressi in questo saggio, ed è anche un film molto comunicativo per i bimbi.
Io non voglio incontrare i miei ragazzi nel prossimo futuro, che saranno diventati uomini nel frattempo e alla domanda su come va il lavoro mi risponderanno: “ uh, come al solito, bene.”. E la tua relazione? “bene dai, sono sposato da 2 anni e ho una bimba.” Voglio sentire la loro energia e che mi coinvolgano col loro entusiasmo, che siano trascinanti, che mi raccontino ciò che stanno facendo come se avessero inventato la cura per il cancro anche se è semplicemente un esercizio nuovo che fan fare ai loro ragazzi, o un modello di automobile, o un interno di una barca, o una minigonna per teenager,o il sorriso di un anziano che accompagnano. Certo che voglio vedere la foto della loro bimba, ma anche che mi spieghino cosa significa per loro svegliarsi la notte preoccupati perché non sentono il respiro della piccola, e i progressi o i regressi che fa la loro pulce ogni giorno. Questo è un rimedio alla depressione. E questo mi porta all’ultimo tema. L’ambiente.
La quarta è l’AMBIENTE. Prendiamo l’esempio dei circoli di tennis, delle scuole tennis medie, ma potremmo prendere ad esempio molti altri sport e quasi tutti i contesti sociali. Cosa interessa alle scuole? I numeri. Interessano i numeri. Allarghiamolo ad altri contesti allora. Al mondo del lavoro ad esempio. Interessa a qualcuno formare un ragazzo? Chi di voi ha una azienda, o gestisce qualsiasi ambiente produttivo si risponda sinceramente. Ci può stare interesse in questa società alla formazione? Tutto è più importante della formazione di un ragazzo: si guarda prima al profitto immediato, al risparmio immediato, si naviga così tanto a vista che se un ragazzo non va bene, e presto, si fa prima a cambiarlo che a formarlo. Si guarda più all’interesse immediato che alle vite di questi giovani esseri umani. Risorse Umane. Mi viene subito da riflettere a quanta fatica fanno alcuni illuminati Maestri di tennis che non mirano al risultato immediato del bambino che allenano, a far passare il messaggio ai genitori o all’ambiente circostante che vincere a 12 anni conta meno di zero. Per non parlare dei forum in internet sul tennis Pro, leggete livetennis.it poi mi dite: commenti allucinanti su ragazzi dati per finiti a 21 anni. Dare più importanza a ciò che si è fatto in un anno, rispetto al percorso intero di un ragazzo, di un giovane, è pericoloso. Badate bene, non ho usato la parola “ingiusto”, non ho usato la parola “sbagliato”, ho usato la parola “pericoloso”. Tutto ciò che è stato detto prima, cioè il volere tutto e subito, la bassa autostima, la mancanza di fiducia in sé, le dipendenze, la mancanza di pazienza, il non possedere un minimo concetto di problem solving, l’utilizzo della tecnologia che diventa dipendenza, tutto questo procurato da un ambiente che implode. Perché l’ambiente siamo noi. E l’ambiente si ripercuote anche sulle scelte dei genitori, sul loro comportamento. Influisce e condiziona. Un cane che si morde la coda. Perché un genitore dovrebbe incoraggiare un ragazzo che a 22 anni è ancora a giocare gli ITF senza indipendenza economica, anche se si impegna al massimo? E’ una domanda da porsi. Certo è che se l’ambiente comunica che a 22 anni se non sei già top 100 sei un fallito, diventa complicato per un giovane senza famiglia facoltosa alle spalle farcela. O anche con famiglia facoltosa, che finirà per dare sì i soldini al figliolo per continuare l’attività, tanto sono la cosa più semplice, ma con il sottinteso “giudizio” da fallimento. Vedete, non si tratta di essere utopistici, non si vuole qui contrabbandare una filosofia “facile”, “spicciola” da salotto tv, si vuole far prendere atto che un ambiente come questo che viviamo oggi non aiuta i ragazzi. Ne elimina un numero incredibile a priori, tutte possibili risorse. Poi ci si domanda perché esiste una discreta eccellenza in Italia (anche nel tennis checchè se ne dica) ma la media dei ragazzi ha problemi esistenziali enormi. Conosco tennisti, lo ripeto, che sono 150 ATP e sono dei ragazzi infelici. Questa è una società che non incoraggia l’equilibrio emotivo, che non rinforza, che lascia soli i più giovani, che non li aiuta a superare il bisogno di gratificazione immediata: Ci siamo dimenticati di insegnare la GIOIA di fare qualcosa, e l’impatto della soddisfazione che ottieni quando si lavora duro su qualcosa per un lungo periodo di tempo, e non solo in un mese e nemmeno in un anno! Loro stessi, i ragazzi, si rendono conto di non provare Gioia, non sentono soddisfazione a migliorare piano piano con fatica, e pensano sia colpa loro. Pensano di non avere le palle, la “garra”, la forza. Io voglio dire che la responsabilità non è loro. E’ nostra e dell’ambiente in cui li facciamo maturare. Miglioriamo questo ambiente e capiremo quanti di loro possiedono invece dentro questa capacità, che ricordo è quella di provare GIOIA: tutti. La capacità di provare Gioia è in tutte le persone sane. Chi non la provasse non ha comunque alcuna colpa, chi non riuscisse in questo “impegno con successo gradualmente rilasciato” probabilmente avrebbe soltanto qualcosa da sistemare al suo interno se l’ambiente fosse positivo. Le aziende, le società sportive, la politica, alcuni insegnanti sono un terreno inospitale in questo senso. E chiediamoci: conviene davvero sacrificare sull’altare del guadagno immediato una intera generazione?
Abbiamo il dovere di fare qualcosa, di intervenire, di riparare i danni che questa società cambiata così in fretta ha prodotto: la società, va detto, non ha fatto solo danni, siamo migliorati su certi temi, prendiamo quello ambientale naturistico ad esempio. Ma dobbiamo riparare certi danni, lo dobbiamo ai nostri ragazzi, e noi per primi ci dobbiamo credere: abbiamo il dovere di educarli alla pazienza attiva, ad apprendere le abilità sociali, prima di tutto l’empatia, a trovare un maggiore equilibrio tra vita e tecnologia. Lo dobbiamo fare come genitori che creino un ambiente favorevole allo sviluppo della creatività dei piccoli, crediamo di farlo ma molti di noi non lo fanno abbastanza. Lo dobbiamo fare nella società, come educatori, o come datori di lavoro, o come amici, confidenti, mariti mogli o fidanzate. Come? Cambiando noi per primi alcuni nostri stili di pensiero. Faccio un esempio: vogliamo perdere 20 kg. Ne pesiamo 90 e vogliamo arrivare a 70. Quale è la prima cosa che diciamo al mondo? Quello che ho scritto sopra. “Voglio perdere 20 kg”. Poi aggiungiamo il tempo. Voglio perdere 20 kg in un anno. (c’è pure chi vuole farlo in meno tempo, lì dovremmo aprire un altro capitolo…). Cominciamo una dieta, più o meno sensata. Ma non è questo il punto. Cosa stiamo comunicando ai nostri ragazzi? Che mamma o papà o amico o fidanzata si stanno mettendo in gioco. Hanno un obiettivo e vogliono raggiungerlo. Ma era un obiettivo corretto? E abbiamo tenuto conto di come siamo fatti, delle nostre caratteristiche, della nostra vita, o siamo stati superficiali e abbiamo ceduto anche noi alla tentazione di pensare: ”se ho voglia, se c’ho le palle, se mi impegno ce la farò senz’altro.” Purtroppo nel 90% de casi non abbiamo tenuto in conto di alcune variabili e del concetto fondamentale di GIOIA. Vedo gente che fa dieta o sport per dimagrire ma non si diverte, non è felice, non sta bene. Esattamente come i ragazzi PRO che giocano tante partite ma non si ricordano l’ultima volta che sono andati in campo col sorriso. E’ inevitabile che fin quando perdi peso, più o meno velocemente, continui, perché vedi risultati. Come il peso comincia a restare stazionario…stop. Riprendi a mangiare, a bere schifezze, smetti con lo sport o l’attività fisica. E’ successo anche a me, eh. Esattamente lo stesso motivo per cui ragazzi che a 14 anni sono campioni regionali o nazionali, a 18 smettono perché i risultati tardano ad arrivare. E’ la stessa perversione del pensiero: “tutto e subito”, o per i più maturi, “molto e presto”. Quindi punto 1 genitori: diamo l’esempio. Papà non fa la dieta (chiamiamola organizzazione alimentare magari, che “regime” evoca cattivi pensieri) perché ha l’obiettivo di perdere 20 kg. Papà cerca di mangiare sano e fare sport per sentirsi meglio. Con Gioia, non con rassegnazione né frustrazione. Mi va una pizza? La mangio. E sposterò l’obiettivo ipotetico 20 kg più in là. Nel frattempo sto bene. Certo è che l’ambiente è importante, persino per me che seguo una alimentazione equilibrata: se ogni 2 per 3 la gente mi chiede “quanto hai perso?” il mondo si “setterà” sul concetto di obiettivo e stop. Meglio chiedere, “come stai?”, “come ti senti a mangiare in questo modo?”. L’ambiente è così importante da influire persino sulle percezioni e decisioni di noi più navigati, quindi figuriamoci sui ragazzi. Per restare nella metafora della dieta e degli esempi positivi da dare ai ragazzi, pensiamo al concetto di PAZIENZA ATTIVA. Passa un anno e ho perso solo 3 kg dei 20 che mi ero prefissato. E’ un successo o una sconfitta? Devo continuare? Potreste pensare che io vi suggerisca di sì. La risposta datela voi, io vi lascio con una domanda. Siete stati bene mangiando in questo modo?
Chiudo con la ripetizione dei 4 concetti fondamentali: 1-GENITORI, diamo l’esempio giusto creando anche intorno a noi l’2-AMBIENTE corretto per la crescita dei nostri ragazzi. 3-Tecnologia, usiamola bene, che sia al nostro servizio, non noi al suo servizio. 4- Pazienza, e che questa parola sia sinonimo di attività, passione, spinta, non passività o attesa triste.
Autore Alessandro Zijno