Intervista a 360 gradi alla tennista più titolata d’Italia, tra molti successi, qualche rimpianto e ….
un obiettivo preciso: far crescere i ragazzi
A cavallo tra gli anni ’80 e ’90 il tennis femminile proponeva un panorama di campionesse davvero affascinante: si sfidavano Martina Navratilova, determinata in campo quanto nella vita privata dove ha combattuto tutti i luoghi comuni, Chris Evert elegante americana vincitrice di 18 prove dello slam e fenomenale anche su terra battuta, la mitica ed inimitabile Steffi Graf, oggi moglie di Agassi, il primo prototipo di atleta moderna, potente ed elastica allo stesso tempo, per non parlare della conturbante Gabriela Sabatini che faceva sognare gli appassionati del foro italico che l’adoravano. Intanto si affacciava nel circuito una giovanissima e rivoluzionaria Monica Seles, che col suo gioco basato sull’anticipo stava imponendosi come nuovo fenomeno e come risposta femminile ad Andre Agassi. Tutte queste campionesse quando leggevano il loro nome associato in tabellone a quello della nostra Sandra Cecchini facevano una smorfia, un misto di insofferenza e preoccupazione. Sapevano bene che giocare contro l’azzurra avrebbe significato dissipare un mucchio di energie, lottare ogni 15 per avere la meglio contro una delle più complicate avversarie che il circuito potesse presentare. Sandra Cecchini infatti non solo disponeva di pericolose armi tecniche (una su tutte il rovescio in back), ma poteva restare in campo più di 3 ore riprendendo ogni palla, mantenendo un livello altissimo. Batterla equivaleva a fare parecchia fatica. Grazie a queste qualità, un braccio educatissimo unito ad una preparazione atletica spettacolare, Sandra ha vinto nella sua lunga carriera ben 14 tornei nel singolare e 11 in doppio, attestandosi tuttora al primo posto in Italia come numero di titoli vinti nel circuito maggiore. Tra le sue vittorie su tutte quella nel 1986 con Chris Evert in Fed Cup a Praga in 3 set combattutissimi: battere l’americana di ghiaccio, la giocatrice dotata di maggiore concentrazione del circuito, resta una impresa titanica che la nostra Sandra riuscì a compiere. Restare per 10 anni tra le prime 20 del mondo (e ai vertici del tennis italiano) rappresenta un’altra gemma della carriera di Sandra.
Le esperienze sportive si intrecciano col racconto di una vita privata non sempre facile, segnata da una sensazione di fondo di non essere sufficientemente amata ed accettata dagli affetti più cari per quello che Sandra era: la consapevolezza di aver scritto alcune pagine di storia del tennis italico ma anche la certezza di poter fare ancora di più, se un mondo a volte crudele non l’avesse indotta a chiudersi troppo in se stessa, di fatto limitandone le potenzialità. E’ un dato di fatto che il tennis italiano non l’abbia compresa appieno: è passata storicamente per terraiola quando invece lei sul veloce indoor sapeva giocare benissimo; è stata considerata schiva e introversa quando sarebbe bastato poco perché si scoprisse una persona aperta, disponibile, generosissima in campo quanto fuori, come in questa intervista che racconta davvero la sua storia e le sue rinnovate ambizioni da coach ora che la maturità le ha regalato maggiori sicurezze e consapevolezza di sé. Leggere per credere.
Sandra nasce il 27 febbraio 1965 a Bologna: pochi sanno che non ha mai conosciuto i genitori naturali che la affidarono ad un istituto di suore che la chiamarono Anna Maria. Giovanni Cecchini e sua moglie Dea, già trentenni, la adottarono quando aveva 8 mesi portandola a Cervia dove vivevano con lo stipendio da dipendente comunale del neo-papà.
Sandra, che differenze ci sono tra il tennis muscolare di oggi e quello degli anni ‘80/’90? E c’è ancora spazio per quel tipo di tennis?
“Le differenze le fanno i materiali principalmente. Guardando il tennis femminile oggi tirano più forte, ma il merito maggiore è degli attrezzi e delle palline. Le racchette sono completamente diverse, vorrei vedere le ragazze di oggi giocare con le racchette di legno…non so mica quanto bene giocherebbero…ma ti ricordi Steffi Graf ad esempio? Era così forte fisicamente che oggigiorno non c’è nessuna come lei, con quella potenza unita all’elasticità. C’era Monica Seles che aveva un anticipo pazzesco. Oggi son tutte ragazzone di 180 cm per la naturale evoluzione del genere umano ma già ai miei tempi tiravamo forte in tante, se Steffi riprendesse a giocare oggi tornerebbe tra le prime 10. Lei era già modernissima, quando tirava il diritto in salto ti arrivavano dei missili. Poi pensa alle corde, noi avevamo un tipo di budello e uno di sintetico, oggi ci sono 10mila tipi…racchette modificate con bilanciamento personalizzato..”
A 12 anni vai a Latina al centro Federale, che ricordi hai di quel periodo? Eri giovanissima.
“La prima settimana fu tutto molto bello, ero eccitata da questa nuova esperienza, avevo entusiasmo, però poi non ti nascondo che per parecchi mesi la sera piangevo e una volta, dopo 2 mesi, chiamai mio papà Giovanni per farmi venire a prendere, volevo andarmene. Per fortuna papà lavorava in quel momento e mi rispose che sarebbe venuto il sabato, per cui ebbi il tempo di ripensarci: fu l’amore per il tennis e per lo sport a salvarmi. Non avevo ancora una idea chiara di cosa fosse il professionismo, come fosse la vita da giramondo dei “pro”, ma avevo il bisogno, la necessità vitale di correre, di competere, di divertirmi e provare emozioni attraverso una racchetta, una pallina, e uno spazio dove muovermi.”
I tuoi genitori erano degli sportivi?
“I miei non erano degli sportivi praticanti, a casa si vedeva il calcio e solo quello, mio papà è juventino e il mio entrare nel mondo del tennis è stata una causalità. Pensa che io non conoscevo nemmeno i grandi del passato, non avevo mai sentito parlare di Pietrangeli, Panatta lo conoscevo di fama ma a casa nostra il tennis non si respirava di certo. A 3 anni però ho messo gli sci ai piedi, mi piaceva già da bimba giocare a calcio, mi piaceva anche il basket e stavo tutto il giorno in movimento”.
Siamo certi che questa multidisciplinarità sia stata fondamentale per la riuscita di Sandra in ambito tennistico: equilibrio, controllo del proprio corpo, propriocettività, capacità di previsione dei rimbalzi, resistenza e mille altri aspetti allenati ore ed ore al giorno attraverso qualsiasi tipo di attività ludica, sia a corpo libero sia con attrezzi come una semplice palla.
Torniamo a Latina, al centro federale nei primi anni ’80.
“Di ragazze ne ho viste passare tante, sono rimasta molti anni del resto. Sai chi mi ricordo come davvero forte? Nicoletta Virgintino, che in quel periodo era la più forte d’Italia nella categoria, era di Bari, fisicamente era eccezionale: non ricordo i motivi per cui mollò, peccato perché poteva diventare una fuoriclasse.”
Piccolo inciso su Nicoletta Virgintino: campionessa italiana nel 1977, si allenò 4 anni a Latina insieme alla nostra Cecchini, alla Reggi, alla Golarsa e molte altre. Figlia di un giornalista pluripremiato ora collabora alla Gazzetta del Mezzogiorno e nella sua carriera di tennista si è arrampicata fino alla posizione 226 della classifica mondiale. La Virgintino stessa in una intervista in occasione di un recente incontro a Latina tra le mitiche campionesse degli anni ‘80 e ’90 ha raccontato un episodio simpatico e allo stesso tempo illuminante: alcune ragazze, che si allenavano al centro federale al Nascosa, si erano divertite un po’ troppo a giocare con un ascensore all’hotel Europa dove alloggiavano a Latina; il maestro Di Domenico le aveva sorprese e le aveva costrette ad arrivare fino al mare a piedi, con il pranzo sullo stomaco, mentre lui le seguiva con la sua mitica A112.
Prosegue Sandra nei ricordi:
“Per molte di noi ragazze, giovanissime, fu un periodo formativo ma molto difficile, con il Maestro Massimo di Domenico che decideva tutto e con il quale il rapporto era quantomeno strano, perché era eccessivamente duro. Il primo anno eravamo 6 ragazze, dormivamo in 3 camere doppie, eravamo piccoline e caratterialmente eravamo assai diverse. Io ero un po’ chiusa e mi chiamavano “l’orso” e il maestro Di Domenico in realtà non trovò mai le chiavi giuste per lasciarmi aprire un po’, e non le trovò con molte di noi…diciamo che l’aspetto umano non era il suo forte ecco. Come minimo possiamo dire che non sapeva gestire le nostre personalità, forse ci voleva qualcuno con una sensibilità maggiore, e comunque per un uomo era anche difficile rapportarsi con delle ragazzine. Nell’adolescenza, noi eravamo tutte adolescenti o poco più, c’è bisogno di qualcuno che faccia il genitore, l’allenatore, il confidente, chi ci riesce permette ad una ragazzina di sviluppare sia il proprio tennis sia soprattutto la propria personalità con tutto ciò che di positivo ne consegue. Io ho reagito a quel modello d’insegnamento (coaching si direbbe oggi) chiudendomi in me stessa: Di Domenico ci puniva per un nonnulla, dolcezza zero, sensibilità poca…Pensa che solo per restare ai discorsi tennistici io molte partite le ho giocate male e perse perché avevo una paura tremenda dei suoi “cazziatoni”, sia dentro sia fuori dal campo tutte noi abbiamo subito dal Maestro Di Domenico parole molto ma molto pesanti …un errore da principianti quello di non prestare attenzione alla gestione dell’autostima dell’atleta… e parliamo di bimbe di 12 anni. Anche io ora come coach mi posso arrabbiare e redarguire un atleta che non si impegna o che fa qualcosa di sbagliato ma c’è modo e modo…
Ci fermiamo un attimo e una riflessione ci raggiunge come una pugnalata: sono passati tanti anni ma poco è cambiato se pensiamo alle scene a cui assistiamo nei tornei under. Ci chiediamo quando in Italia avremo una cultura sportiva all’altezza. Massimo Di Domenico non fa più parte dell’organigramma federale, le ultime notizie lo davano come allenatore di una ragazza, Diletta Mancinelli, attualmente 3.4 all’età di 13 anni e va detto per completezza d’informazione che il Maestro Di Domenico per 17 anni ha gestito il centro federale di Latina al Club Nascosa, con risultati buoni che avrebbero potuto essere eccezionali se, come ci ha dichiarato Sandra, ci fosse stata più attenzione sugli aspetti umani.
Penso che queste esperienze possano essere messe a frutto adesso che sei coach per non ripetere gli errori commessi a suo tempo nel centro federale di Latina.
“Esatto.”
Come definiresti la Sandra Cecchini tennista?
“Usavo molto bene il rovescio ad una mano, il diritto invece lo giocavo con paura, non ero sicurissima ecco, fisicamente stavo assai bene, in campo leggevo bene le situazioni e sapevo utilizzare le palle corte. Mi hanno dato della terraiola ma ho vinto moltissime partite sul cemento e adoravo giocare sul veloce indoor perché mi muovevo bene del resto su ogni superfice. Ho sempre avuto un buon gioco di gambe, il footwork si direbbe oggi.”
Quindi possiamo dire che il colpo da migliorare sarebbe stato il diritto, non come biomeccanica del gesto quanto come sicurezza nell’esecuzione?
“Bravo, mi mancava quella sicurezza che invece avevo nel rovescio, ma era uno stato d’animo di fondo e fu un vero handicap nella mia carriera…maledetta paura…”
Tattica. E’ vero che giravi i tornei senza coach? E come preparavi le partite?
“Sì, giravo senza coach, ed era principalmente per un problema economico: girare col coach significa spendere parecchio, gli allenatori costavano tanto allora quanto costano oggi. Nei tornei però io rimanevo lì a guardarmi le partite, tutte, sia negli slam sia nei tornei minori. Adoravo e adoro ancora vedere le partite. Conoscevo bene le mie avversarie anche per questo. Vedevo le giocate che facevano nei vari momenti del match, le loro scelte nei determinati contesti di match, quindi poi la tattica me la facevo sostanzialmente da sola durante le partite, ricordandomi dei punti deboli dell’avversaria ma tenendo presente anche me stessa e le mie sensazioni al momento. Quindi non ho mai preparato a tavolino i match, entravo in campo e giocavo.”
Quello che emoziona e ci piace troppo è immaginare una campionessa come Sandra rimanere fino a tardi sui campi a godersi le emozioni dei match delle altre ragazze come fosse un appassionato qualsiasi, il quale si segue anche gli incontri di minore appeal per la grande passione che lo anima. E che anima, evidentemente tuttora, la nostra Sandra Cecchini. Nel 2016 è assai più improbabile vedere queste scene e i ragazzi assistono quasi esclusivamente agli incontri dei propri amici o dei compagni di doppio, oppure “costretti” dal proprio coach al fine di studiare il futuro avversario in tabellone.
Torniamo a Sandra:
“Pensa che io tuttora divoro tutte le partite dei tornei che mi capita di seguire: ero in Sardegna tempo fa per accompagnare una ragazza russa. Vedendo che il livello femminile non era un granchè, sono restata a seguirmi il torneo maschile tanto che mi sono vista con interesse e curiosità tutti i match che ho potuto, per pura passione, senza secondi fini. Tanto è vero che la mamma della ragazzina ha finito per pensare che ce l’avessi con loro e non gradissi la loro compagnia, non percependo il mio amore puro per lo sport. Oggigiorno appare persino strano che un addetto ai lavori stia 8 ore sui campi a seguirsi i match.”
Non possiamo che essere d’accordo, perché è quello che è successo anche a noi diverse volte, con tanta gente che si stupisce di vedere qualcuno assistere a tanti match con entusiasmo. Siamo forse ormai “corrotti” dall’economicità delle nostre azioni, come se tutto dovesse essere mosso da un vantaggio immediato. Si può ancora almeno nello sport spendere del tempo e delle energie per nutrire una passione? Tra l’altro, per dirla tutta, seguire attentamente molti incontri “forma” la propria esperienza nel miglior modo possibile, quando cioè si è maggiormente ricettivi, trovandosi in una situazione di rilassatezza.
Sentiamo Sandra:
“Moltissimi ragazzi non si divertono più nel tennis, per questo non restano sui campi. In giro per i tornei vedi dei ragazzi con delle espressioni infelici, sono scontenti. E quando manca la gioia un ragazzo ha già perso anche se vince gli incontri.”
La chiacchierata con Sandra Cecchini da Cervia prende un verso particolare, si discute di varia umanità e si vira sull’argomento “allenatori/coach”:
“Sono stata un po’ a Roma e ti dico che mi sono sentita un pesce fuor d’acqua nell’ambiente. Trovo che la maggior parte degli allenatori siano dei venditori di fumo…fanno i fenomeni…ma capiscono ben poco. Io alleno per il piacere di farlo, non per raccontare favole e spillare denaro vendendo sogni alle famiglie. Anche ai corsi di aggiornamento per coach se ne sentono di stupidaggini. Sono tutti bravi gli allenatori però poi i ragazzi a 16 anni smettono…perdono 3 partite e dicono di non divertirsi più…ma chi sa davvero insegnare la cultura sportiva vera? Quella per cui essersi impegnarsi al massimo significa comunque aver posto buone basi per il futuro?”
Aggiungiamo che forse una parte dell’allenamento mentale consiste proprio in questo: creare un modello di atleta in grado di ricaricare le proprie energie emotive o psicofisiche in maniera autonoma, così come rinnovare senza interventi esterni il gusto di giocare. Un buon coach fa proprio questo.
Sandra conferma:
“Il giocatore lo vedi quando perde. Sai cosa dico io ai miei bimbi? Dico che vincere sempre è facile, voglio vedere quando perdi che devi star lì a lavorare e soffrire.”
Arriviamo all’aspetto mentale nella tua carriera. Stai avanti al Roland Garros contro Monica Seles 6-3 -2-1 30-15…poi che è successo?
“Quella è stata una delle mie migliori partite della carriera, una di quelle che ricordo con più piacere anche se alla fine la persi. Per un’ora e mezza ho dominato la Seles giocando dei back di rovescio ad 1 cm dalla riga e l’ho messa in seria difficoltà. Sul 6-3 2-1 30-15 mi è uscito un rovescio di un nonnulla e l’inerzia del match si è cominciata a spostare dalla sua parte. Fossi andata 40-15 con 2 palle del 3-1 chissà…Poi la Seles ci ha messo ancora più energia, io sono un po’ calata, e ho finito per perdere. Però me la ricorderò tutta la vita questa partita perché per un’ora e mezza mi trovavo veramente in quella condizione di quasi perfezione (gli americani lo chiamerebbero stato di flow) che poche volte capita in una carriera. Nel terzo set mi ha preso a pallate proprio perché l’energia mentale è terminata. Me la ricorderò sempre comunque come se avessi vinto, come anche quella con Steffi Graf (persa 6-4 al terzo) a Berlino. Sì, è giusto ricordare con piacere anche le sconfitte quando si sa di aver giocato bene. Probabilmente se avessi vinto queste partite molto lottate contro una Seles o contro una Graf la mia carriera avrebbe potuto prendere una piega ancora migliore. Certo è che battere la numero uno del mondo mi avrebbe dato una fiducia ulteriore.
All’epoca non c’erano allenamenti mirati sul “mentale”? negli anni ‘80/’90 in altri sport esistevano già degli allenamenti mirati alla mente, o almeno ci si provava.
“Mirati no. A Latina qualche psicologo arrivò, ma facevamo training autogeno tutti insieme…eravamo tutti lì seduti…mica esisteva il concetto di “visualizzazione”… o almeno nessuno ci fece praticare nulla di simile. Comunque la mia idea è che non a tutti serva. Ed è importante che il mental coach trovi un feeling con l’atleta, quindi non è detto che il miglior mental coach in circolazione funzioni con tutti. Ma questo vale per ogni figura professionale nel tennis, come anche nella vita.”
Preparazione Atletica: molti sostengono che 30 anni fa ci si allenava di meno, è vero?
“Falso! Non sono affatto d’accordo che ci si allenasse di meno! Io quando giocavo se avessi fatto 3 set su 5 non avrei perso da nessuno, nemmeno dalle supertop. Facevo atletica tutti i giorni, allenamento aerobico, resistenza, velocità, sviluppavo la forza, e questo tutti e 365 giorni dell’anno. Vorrei vedere chi lo fa adesso. Io mi allenavo tantissimo ma anche le altre lo facevano, ricordo sessioni davvero molto dure anche a Latina con le altre azzurre.
A proposito, come era la giornata tipo a Latina, nel centro federale?
“La mattina si andava a scuola, poi alle 14,30 passava il pulmino che ci portava al circolo (al Nascosa) e tornavamo intorno alle 19,30. Si cenava, si studiava e poi tutte a nanna. L’allenamento era molto completo, si toccavano tutti i punti del training, si lavorava su tutti gli aspetti, con più intensità di come mi sembra si tenda a fare oggi. Forse le ragazze avevano mediamente più “voglia” di quelle attuali. Poi ogni caso è a sé, come è ovvio.”
Sandra, secondo te per un atleta che non ha gli studi (quindi è libero la mattina) come va organizzato l’allenamento ideale?
“Dovendo generalizzare e semplificare se hai un atleta che non va a scuola puoi fare del lavoro tecnico la mattina, un paio d’ore e mezza di intensa attività di sviluppo e perfezionamento dei gesti tecnici, mentre il pomeriggio puoi lavorare sugli aspetti atletici, finendo poi magari con lavori più leggeri, ad esempio sul servizio. Io credo che, oggi come ieri, una preparazione atletica ottimale e personalizzata sia indispensabile: ad esempio nei mesi come novembre o dicembre, o comunque quando puoi “caricare”, devi veramente spingere al massimo. E’ troppo importante stare sempre al top fisicamente, sia nel circuito maggiore sia in quelli giovanili.”
Sandra aggiunge una interessante riflessione.
“Oltretutto è fondamentale preparare bene i ragazzini, soprattutto quelli più giovani, sul piano della coordinazione e dell’equilibrio perché fino a 30/40 anni fa esisteva una multidisciplinarità naturale, in pratica i bambini giocavano in strada, facevano mille attività fisiche, a scuola si faceva ginnastica che diventava movimento di base; oggi tu tiri una pallina ad un bimbo e quello non riesce mica a prenderla al volo con le mani. I bambini attuali vivono attaccati al computer, allo smartphone, sul divano. Sono più “poltroni”.”
Il tuo scopritore è stato Paolo Cortesi vero?
“Sì, è scomparso un anno fa e gli sono sempre legatissima nel mio cuore. E’ stato quasi un secondo papà…una persona meravigliosa ed in effetti mi ha scoperto lui. Mi vide giocare una volta casualmente con un mio amico nel campo a fianco di quello in cui lui teneva la sua lezione e notò immediatamente la mia capacità di movimento, la mia attitudine, e chiese a mio papà di portarmi al circolo, qui a Cervia. Cominciai così, semplicemente. Lui ebbe davvero un buon occhio. Io ero magra magra, ero un frugoletto, ho una foto con una racchetta di legno in mano, una Maxima deluxe, ero davvero una bimba gracilina, ma riprendevo tutto, correvo in campo come una furia.” Sandra sorride al ricordo.
A proposito di racchette, tu con quale giocavi?
“Inizialmente con la Maxima deluxe in legno, per poi passare alla Prince Graphite 90, anche la Sabatini usava la stessa racchetta ma col piatto corde più grande, la 110.”
I tuoi genitori vedendo la tua bravura e passione credevano che saresti potuta diventare una campionessa di tale livello? E tu stessa ci credevi?
“Non lo so. Sono andata via di casa a 12 anni. Forse quando ho cominciato a vincere qualche partita ci hanno creduto anche loro.”
Ogni qualvolta si tocca il tasto “famiglia” Sandra entra istintivamente in modalità “frenata”, un retaggio di tante sofferenze come leggeremo più tardi nell’intervista e che non sono state superate ancora del tutto, ferite mai rimarginate che vengono fuori per la prima volta pubblicamente. I suoi genitori non l’hanno mai ostacolata direttamente nel tennis, tutt’altro, però non le hanno mai permesso di essere totalmente Sandra, di esprimere appieno la propria natura. Credo non esista tortura peggiore nella vita che sentirsi impediti di esprimere sé stessi, laddove non si faccia male al prossimo. E’ vero che le hanno consentito di fare tennis, spendendo anche i non numerosi soldini che il papà, dipendente comunale, guadagnava, ma non hanno mai accettato completamente, soprattutto la mamma Dea, il suo essere “maschiaccio”, fin da piccolina, e la conseguente esternazione dei gusti sessuali, mai per altro manifestati in maniera plateale. La mamma in special modo desiderava una bimba coi vestitini e i fiocchetti, forse credeva che avrebbe fatto la nonna in una famiglia tradizionale e non ha mai saputo trasmettere tutto l’amore che probabilmente voleva dedicare alla sua figliola.
Sandra aggiunge:
“Andando via da giovanissima non ho avuto nemmeno una adolescenza classica, però i miei genitori non mi chiedevano mai se fossi felice, non si preoccupavano delle emozioni di Sandra, mostrando affettività a modo loro. In modo più basico diciamo, tipo “hai mangiato?” “Stai in salute?”, queste cose qui… Sono sicura che mi sono chiusa anche per questo. Caratterialmente mi sono dovuta formare da sola, e chiudermi in me stessa era anche un modo per difendermi…I miei genitori comunque non sapevano molto di tennis, non conoscevano nemmeno i meccanismi del ranking, figurati…non come i genitori di adesso che seguono tutto del figliolo, anche troppo. Sono deleteri anche questi genitori eh…”
In che senso?
“Ti racconto un episodio: bimbo del 2008, coordinazione pazzesca per un ragazzino di 8 anni, dopo pochi allenamenti colpisce perfetto nel diritto e nel rovescio, movimento al servizio fin da subito fenomenale, riprende tutto in campo con velocità di gambe naturale…il papà però…tutto il tempo dietro la rete a comunicare col figlio mentre si allena…allora sposto il bimbo dall’altra parte della rete e si sposta anche il papà…e continua a parlare al figliolo. A questo punto prendo il padre da parte e gli chiedo di non parlare più col bimbo durante gli allenamenti e così facendo impartisco una lezione anche a lui: “fai il papà-gli dico- e il papà incoraggia per i progressi ma non interviene durante la sessione; se il bimbo si comporta male in campo è il coach che lo riprende, anche duramente se necessario, e solo dopo il papà può rimproverarlo a casa dandogli delle spiegazioni a riguardo.” Insomma un buon genitore fa sentire la propria presenza spirituale, fa sentire che c’è, che lo appoggia ma deve anche far capire chiaramente al bimbo che deve ascoltare e fidarsi dell’allenatore, altrimenti poi si fa confusione tra i ruoli… Questo genitore alla fine mi ha ringraziato ed ha capito dove sbagliava. Alla fine se un genitore fa bene il genitore, e mi consegna un bambino sereno, i risultati sono triplicati, stanne certo. I bambini sono spugne, assorbono tutto, se il genitore alla prima sconfitta mette in dubbio il lavoro di un anno, o comunque va in crisi, di conseguenza va in difficoltà anche il figlio, e diventa difficile per qualsiasi allenatore poi motivarlo e farlo crescere da ogni punto di vista.”
Due riflessioni: la prima è che se un bimbo o adolescente non percepisce l’amore incondizionato dei propri genitori come è successo a Sandra, il minimo che possa fare è chiudersi a riccio ed esternare sé stesso il meno possibile; entrando nel dettaglio come poteva Sandra metabolizzare la critica che sua mamma Dea le faceva più o meno direttamente per il suo essere differente dal modello di bimba/ragazza che una casalinga di Cervia poteva avere negli anni ’70? L’ovvia conseguenza è: se nemmeno mamma mi capisce e mi sostiene di chi altri potrò mai fidarmi? Di allenatori che pensano solo al risultato sportivo? Di amiche che al momento mi sembrano più forti di me caratterialmente?
La seconda riflessione è sui genitori moderni: moltissimi Maestri, tra il serio e il faceto, mi confessano di essere a disagio con alcuni, molti, genitori, e che oltre ad allenare i bambini bisogna fare anche la stessa fatica con i loro papà e mamme.
Il 1984 è l’anno della prima escalation. Vinci Rio, fai finale a Taranto, e quarti di finale ad Indianapolis sul carpet. Nello stesso anno fai anche le Olimpiadi a Los Angeles, ne hai fatte 3, che ricordo hai?
“Sì nell’84 vinco Rio su terra (il sito dell’ITF erroneamente lo indica come Hard Outdoor ndr) ed in effetti è stato un anno ottimo, con buoni risultati. L’Olimpiade di Los Angeles invece la ricordo con poco entusiasmo, il tennis era sport dimostrativo e non alloggiavamo nel villaggio, per cui l’atmosfera non era da Olimpiade. Il top è stato a Seul nel 1988, lì in effetti provai davvero l’emozione di vivere i Giochi Olimpici, conobbi Bernardi e Lucchetta, i fenomeni della pallavolo, e Massimo Mauro che da juventina era uno dei miei idoli. Fu bellissimo. Poi feci anche Barcellona nel ‘92, però Seul mi è rimasta nel cuore.”
Nel 1985 vinci il torneo su terra di Barcellona, fai quarti al Roland Garros perdendo solo da Martina Navratilova, ma l’anno fondamentale è il 1987 quando vinci Bastad e Little Rock, altro torneo sul cemento. In quel periodo affronti tre volte Steffi Graf andando in due occasioni vicina alla vittoria. Che ricordo hai di quelle stagioni e di quelle sfide?
“I miei anni migliori sono stati quelli sul piano dei risultati, l’87 ma anche l’88 in cui ho fatto quarti al Roland Garros, a marzo del 1988 sono diventata numero 15 del mondo che resta il mio best ranking. Io per 10 anni di fila sono entrata nelle prime 20 del mondo, quindi in realtà è un best ranking impreziosito da questa longevità e continuità di risultati.”
Sabrina Goles, jugoslava di Zagabria (croata si direbbe oggi), compagna di doppio in quel periodo: cosa ricordi di lei?
“Sabrina Goles era una ragazza con delle potenzialità stratosferiche, abbiamo giocato tanti tornei insieme in quel periodo, era un po’ pazzerella, ma a tennis giocava di un bene…poi siamo diventate amiche, ci sentiamo ancora anche attraverso i messaggi o facebook, una ragazza eccezionale. Era ed è una persona buona, con la quale avevo legato molto. La ricordo con estremo piacere.”
Per gli amanti della storia, Sabrina Goles ebbe una eccezionale carriera da junior, dove prometteva davvero bene, raggiungendo spesso risultati ottimi negli slam di categoria. Tra i “grandi” si è arrampicata alla posizione numero 27 del ranking, vincendo però un solo torneo del circuito maggiore nel singolare e conquistando la medaglia d’argento nelle Olimpiadi di Los Angeles per l’allora riunita Jugoslavia di Tito. In doppio giocò molto con la nostra Sandra e insieme vinsero Charleston nel 1986.
Qualche rimpianto di non essere salita ancor di più in classifica ce l’hai?
“Per come giocavo nel mio periodo migliore, direi di sì. Potevo entrare nella top 10, anche se in quel periodo c’erano giocatrici davvero con le “palle”. Ad ogni modo in quel periodo non ho mai perso con la Nathalie Tauziat per esempio, che è stata tra le prime 10. Purtroppo molte partite le ho affrontate senza la serenità necessaria, dentro e fuori dal campo, perché non mi sono mai sentita libera davvero.” Per la storia una vittoria della francese c’è, a Roma nel 1994.
L’ultimo tuo torneo vinto è stato nel ’92 a Parigi, non il Roland Garros, ma nel frattempo avevi trionfato in molti tornei di doppio in coppia con l’argentina Patricia Tarabini, raggiungendo anche il best ranking nella specialità al numero 22. Che ricordo hai di lei? E Vi sentite ancora?
“Stupendo il rapporto con lei. Patricia era solare, pazza come un cavallo, delle due ero più io a dare tranquillità in campo, ero anche più esperta, più grande di 3 anni. Abbiamo giocato insieme 10 anni, si girava il circuito assieme, anche lei una bella persona, di compagnia, in campo io davo “solidità” e lei faceva i numeri.”
Sandra, mi racconti una partita svolta” della tua carriera?
“La partita che mi ha dato davvero la carica fu quella con Chris Evert nella Fed Cup a Praga. Vinsi quell’incontro e lei era la numero 2 del mondo, e non era una cosa di tutti i giorni. Presi davvero molta fiducia. Tra l’altro avevo perso il primo set, quindi fu ancora più bello vincere in rimonta. Era il 1986.”
La tua ultima partita di singolare nel circuito professionistico fu nel 1998 a Flushing Meadow, una scelta o un caso?
“Guarda, quell’anno lì mi ruppi il perone, giocando a calcio, sono stata operata, sono rimasta ferma tre mesi. Ero ancora 50 o 60 del mondo, volevo continuare, ma mi accorsi che andando in giro da sola per il circuito il mondo del tennis stava cambiando. Cominciavo a non sentirmi più a mio agio, era un mondo diverso con persone diverse, non si trovava più facilmente qualcuno con cui allenarsi, con cui scambiare quattro chiacchiere…le nuove ragazze che si affacciavano nel circuito erano assai differenti, più fredde, più chiuse, ognuna col suo staff (genitori o allenatori), quasi non ti salutavano. A 33 anni mi sono accorta che cominciavo a stancarmi di restare chiusa in albergo in attesa delle partite perché davvero non si incontravano più ragazze disposte a condividere qualche ora nemmeno per parlare. Un po’ però nel corso degli anni me ne sono pentita: ero integra fisicamente, stavo bene, l’amore per il tennis non era scemato, avrei potuto continuare ancora per un periodo, togliendomi altri soddisfazioni. Visto il livello avrei potuto ancora scalare la classifica, anche nel doppio.”
Quando un atleta di alto livello come te smette l’attività agonistica spesso soffre della mancanza di quella stessa tensione o adrenalina che a volte ha detestato durante la carriera, a te è successo?
“Ti dico la verità, io quando ho staccato ho avuto un attimo di rigetto. I due anni successivi al termine della mia carriera, quindi nel 99 e nel 2000 ho giocato a calcio. Ho completamente appeso la racchetta al muro. Quando ho dichiarato di essermi presa due anni sabbatici, intendevo questo. Mi allenavo a calcio, ho giocato un paio di campionati molto bene.”
Ma ti ricordi cosa hai fatto esattamente il giorno dopo la decisione di ritirarti?
“Sai che non me lo ricordo? Probabilmente mi sarò andata ad allenare a calcio. Pensa che quando ero ancora in piena attività nei due mesi invernali di stop del circuito, giocavo in serie C a calcio, è sempre stata una mia grande passione e lo usavo anche come un vero e proprio allenamento, tanto è vero che in campo correvo come una pazza.” (e sorride).
Poi dal sito ITF Senior risulta che sei tornata in attività con 17 vittorie in altrettanti incontri!
“Sì, è vero, sono rientrata per divertirmi nel circuito senior, ho fatto qualche tappa in Italia ed in effetti ho vinto sempre. Ma il livello è bassino comunque, per cui poi non ho trovato stimoli.”
Nella tua lunga carriera hai guadagnato solo di prize money circa 1,5 milioni di dollari. Quanto ti è realisticamente rimasto in mano visto le numerose spese di chi viaggia il circuito? E sei riuscita a mettere da parte qualcosa di sostanzioso?
“Mah, se avessi giocato oggi avrei guadagnato 10 volte tanto, vedendo i mei risultati. Allora sì che avrei guadagnato bene. In quel periodo storico si giocava coi montepremi femminili che erano sì e no il 30% di quello degli uomini, poi abbiamo lottato e c’è stato un piccolo incremento e comunque non c’erano i soldi che c’erano adesso. Ai miei tempi non esisteva l’ospitalità quasi in nessun torneo, negli slam se uscivi al primo turno praticamente andavi sotto con le spese, mica come adesso che se fai tutte e quattro le prove degli slam ti ripaghi quasi l’intera stagione. Insomma qualcosa in tasca è rimasto, ma non abbastanza da non far più nulla e godersi i soldi…”.
Cosa ricordi delle tue compagne azzurre dell’epoca?
“Comincerei dal rapporto con Raffaella Reggi. I giornali non sempre hanno raccontato la verità, qualche volta creando dualismo. In realtà noi due eravamo e siamo ottime amiche, e da ragazzine a Latina siamo state in camera insieme. Da sole, io e lei, abbiamo sempre avuto un bellissimo rapporto, lei ha casa qui, ci vediamo spesso nei week end, se c’è stato qualche fraintendimento è stato per l’intervento di terze persone, ma son cose che capitano. Le voglio bene e lei ne vuole a me. Sicuramente quando eravamo piccoline, lei era più influenzabile, soprattutto dai genitori: quando c’era la mamma cambiava e la cosa è anche comprensibile e i suoi genitori, che ora non ci sono più, erano abbastanza competitivi. Insomma questa rivalità raccontata dai giornali è una fandonia, o comunque io proprio non l’ho mai vissuta.”
La Reggi ha avuto il suo best ranking al numero 13 e si è ritirata a 25 anni per qualche problema fisico, in particolare le articolazioni dell’anca erano consumate. Tra le campionesse dell’epoca c’era anche Laura Garrone, vincitrice di due titoli slam (Us Open e Roland Garros) da junior nel 1995, e capace di arrivare al numero 32 del mondo. E’ lei la tua migliore amica?
“Sì, Laura Garrone è la mia migliore amica. Questa amicizia è nata dopo Latina. Se avessi capito prima che bella persona era ed è Laura, forse avrei vissuto meglio certe situazioni lì al centro federale. Invece come ti ho detto prima mi ero chiusa molto e quindi ho scoperto solo dopo questo feeling con Laura che dura ancora oggi.”.
Chi ti dava più fastidio come gioco delle tue avversarie italiane?
“Pativo le italiane in genere. Sentivo molto le partite con le altre azzurre, ma non per eccessiva competitività ma proprio perché l’amicizia e comunque la conoscenza più approfondita, il fatto che vuoi o non vuoi ci si frequentasse, mi rendeva meno “cattiva” in campo.”
Non c’era quindi rivalità tra voi. Si gioiva dei successi delle proprie compagne.
“Sì! Almeno da parte mia era così! Mai avuto invidia per il successo delle colleghe!”
E anche da parte delle altre ragazze nei tuoi confronti?
Ride Sandra, si fa una fragorosa risata. Poi risponde.
“Spero di sì dai. Io parlo per me, e nemmeno una volta mi ha scocciato la vittoria di un’altra ragazza, anche se magari io ero andata fuori al primo turno. Chissà che non sia stato un mio limite questo mio saper partecipare emotivamente anche alle vittorie altrui…”
No, Sandra, non è mai un limite saper compartecipare: questo unisce e non divide mai. Semmai è un grande pregio. Di cui godono gli altri e, quando si raggiunge la maturità, di cui si gode direttamente.
Delle 4 aree che riteniamo fondamentali nello sport, cioè tecnica, tattica, atletica e mentale, dammi le tue percentuali di importanza nel tennis moderno professionistico.
“Tecnica 10%, tattica 10%, atletica 40%, mentale 40%. Tante volte mi fanno delle domande tipo: tra uno con un talento formidabile e uno con tanta voglia e attitudine al sacrificio, chi ti prendi? Tutta la vita chi ha voglia di lavorare e sacrificarsi. Il talento è importante, è ovvio, ma senza quel qualcosa in più a livello di “fuoco interiore” finisce che la tecnica resta fine a sé stessa.”.
Il tuo giocatore attuale preferito chi è?
“Roger, non si esce da lì. E’ il tennis puro, è un piacere vederlo. Federer uguale tennis. Punto.”
E tra le femmine? Serena Williams?
“Assolutamente no. Mi piace tanto la spagnola Suarez Navarro, e la Halep, però ultimamente non posso vedere il suo atteggiamento in campo, mi irrita, sembra avercela col mondo, fa’ un po’ la vittima. La Suarez invece sa far tutto, bello il suo rovescio ad una mano, si muove bene in campo, è assai più varia di quelle che giocano col paraocchi, bombardano e basta.”
E’ eresia dire che la Suarez Navarro somiglia come gioco e impostazione alla Sandra Cecchini?
“Potrebbe essere, non è lontanissima.”
E degli azzurri, chi ti piace?
“Fabio Fognini ha un talento devastante, però deve sistemare qualcosa, e anche più di qualcosa a livello di tenuta mentale. Fa rabbia vedere uno col suo talento, che potrebbe essere tranquillamente tra i primi 10 del mondo, buttare al vento tante partite in quel modo.”
Tra le femmine italiane attuali?
“Siamo nella melma. Erano 30 anni che non avevamo nessuna ragazza nelle quali a Parigi e a Wimbledon. Non c’è ricambio. Questo è grave eh? Tra le ragazze in attività mi piace la Roberta Vinci, le auguro una carriera ancora lunga però non è facile eh…dopo di lei tra le giovani il nulla…”
E di chi è la responsabilità? Della FIT?
“Io non so cosa faccia la federazione, però di chi sono se non di chi gestisce il tennis italiano? Qualche problema ci deve essere se stiamo così alla frutta. Dietro Vinci, Schiavone che ha 36 anni, Pennetta che ha smesso, Errani che sembra in un momento di involuzione, cosa c’è? La Giorgi certo non è un prodotto federale… l’errore può essere stato quello di lasciare fuori dall’organigramma federale tanti campioni come Panatta, la Reggi e perché no, anche la Cecchini. ” Su questo argomento ci torneremo.
Anni fa vedemmo giocare la Caregaro, a Pomezia in un 10mila, e ci piacque molto, poi però non ha mantenuto le aspettative…
“Non la conosco bene, l’ho vista giocare poco, ma per quel che ho visto…poca roba…stiam messi male se dobbiamo puntare su tenniste di questo livello, spero di sbagliarmi per lei ovviamente. Credimi, dopo le big, c’è il vuoto totale. Almeno tra i maschietti qualche ricambio c’è: a Roma mi è piaciuto molto Lorenzo Sonego, di lui mi piace l’atteggiamento in campo; ci sono anche Donati e Mager che ho conosciuto in Sardegna, con buone attitudini e che stan facendo progressi importanti. Questi sono ragazzi interessanti, il materiale su cui lavorare c’è.”
Insomma ti tocca tirare fuori qualche talento femminile a te adesso, visto che sei una coach con un bagaglio di esperienze incredibile.
“Eh, ci vuole fortuna. Una botta di culo. Se mi dovesse capitare l’occasione non mi tirerò indietro.”
Doping. Esiste secondo te un problema doping nel tennis?
“mmm…sai qualche dubbio mi viene, ma sai se non ci sono prove evidenti…può esserci, vedendo qualche progresso muscolare improvviso…”
Capitolo scommesse. Sei più per giustificare moralmente chi cede alla tentazione di soldi facili a causa di difficoltà economiche per portare avanti l’attività professionistica o per condannare senza se e senza ma?
“Io non giustifico. Razionalmente posso comprendere chi magari la settimana dopo va a fare un torneo che ritiene importante, non ha buone sensazioni e allora decide di monetizzare attraverso una scommessa contro se stesso una partita che avrebbe perso comunque. Ma un atleta mette sempre il 100% se decide di scendere in campo. Deve mettere il 100%. Per cui non giustifico. Però qui in Italia sono stati coinvolti giocatori di primo piano anche, che non avevano bisogno di soldi ecco. Giocatori già affermati. Ma perché mettere a repentaglio la propria immagine con situazioni poco chiare, illegali per altro?. Diciamo che come minimo non sono un buon esempio per i giovani. Detto ciò spero ne escano tutti puliti, spero sia solo una grande bolla di sapone ma non ne sono così convinta. Per altro il marcio sta di più fuori dall’Italia secondo me.”
Parlando così amabilmente e con talmente tanto feeling con Sandra che non ci si accorge del tempo che passa, il discorso si sposta sulla Cecchini bambina, e per la prima volta dopo 51 anni Sandra rivela qualcosa che pubblicamente non aveva mai detto e che le esce comunque con un filo di amarezza.
“Da bimba ero un vero maschiaccio. Facevo tutto quello che non fa la femmina. Bambole no, giocavo con le pistole, con le figurine, saltavo sugli alberi, facevo di tutto e di più.”
E i tuoi genitori tutto questo come lo prendevano?
“Mia mamma questa cosa qui l’ha sofferta, lei ha sempre voluto la classica femminuccia, con la gonnellina, la borsettina, e si è ritrovata un maschiaccio, ancora adesso mi rompe le scatole sai. Pensa che ancora oggi mi dice “guarda quella lì che bella gonna che ha… ma cosa vuoi è una donna che non si è mai emancipata, è rimasta una donna di paese.”
Ma perché sei stata chiamata Anna Maria?
“Ora te lo dico, sono stata adottata. A casa tuttora non se ne parla. Per me fu piuttosto sconvolgente venirlo a sapere dalle voci in giro, anche a scuola prima e tra le mamme delle altre giovani tenniste poi. E’ rimasto un tabù a casa mia, sai. E non ho mai conosciuto i miei genitori naturali, mi piacerebbe molto in realtà, sono piuttosto curiosa da una parte ma è molto difficile dall’altra: papà Giovanni e mamma Dea hanno sempre avuto anche la paura che conoscendo i miei genitori naturali potessi fare o pensare chissà cosa. In realtà ad un anno io sono stata portata a casa dai miei, che han dovuto aspettare qualche mese da quando mi avevano scelta perché avevo avuto un’otite perforante e mi stavano curando. Sono nata sicuro a Bologna, ma molti mi dicono che sembro danese o tedesca. Chissà. Comunque non sto trovando nessuno che sappia aiutarmi a ricostruire i miei primi momenti di vita, pare che alcuni archivi siano andati distrutti e non si riesca a risalire a nulla. Sai quando ho letto le tue domande mi sono andata a fare una doccia e mi sono commossa, ho dovuto scavare dentro di me, per tante situazioni che stavano lì dentro da troppo tempo, mi sono emozionata e mi son dovuta mettere a nudo prima di tutto con me stessa. Per tutti questi motivi non amo essere chiamata Anna Maria.”
I tuoi rapporti adesso con la tua famiglia?
“Mio padre fa 90 anni a gennaio e mia madre ne ha 86, ho sempre avuto più feeling comunque con papà, con mamma magari c’è più attrito, anche oggi. Non è che ci vediamo quotidianamente, né per le feste. Ricordo con piacere una zia, la sorella maggiore di mia mamma alla quale ero parecchio affezionata, ma è venuta a mancare presto.
Ti manca la maternità?
“La verità è che non mi manca. Adoro i bambini, tanto è vero che quelli della scuola tennis li sento tutti come “miei” bambini, però sinceramente sto bene così. Già loro riempiono molto la mia vita, e poi l’impostazione della mia esistenza è sempre stata particolare e forse non ha mai contenuto in sé la possibilità di una famiglia tradizionale. Comunque lavorare con i bambini mi piace tantissimo, loro ti danno davvero molto sul piano umano, affettivo, e poi torni a casa la sera con i capelli dritti ma la fatica è ripagata dai loro sorrisi.”
In amore come è andata?
“mmm…così così dai, sicuramente di situazioni non propriamente felici ne ha risentito perfino la mia vita professionale, molte partite le ho giocate male anche perché stavo soffrendo per qualche problema di cuore, del resto lasciar fuori dal campo i problemi personali non è cosa semplice. Vivere con maggiore serenità i rapporti che ho avuto mi sarebbe stato di grande aiuto, per la mia stabilità emotiva in campo e fuori. Non c’è dubbio che all’inizio della carriera in diverse occasioni abbia incontrato le persone sbagliate, e ho la netta sensazione che abbia dato di più di quanto abbia ricevuto. Nelle relazioni ho sempre ricercato quella profondità che è assai difficile trovare, e probabilmente avrei avuto bisogno di persone che mi dessero serenità maggiore. Ora per fortuna vivo un Amore maturo, sto con la mia compagna ormai da 14 anni e se l’avessi avuto ai tempi in cui giocavo un amore così sinceramente avrei vissuto meglio. E’ un amore bellissimo ma i tempi non sono ancora maturi perché sia alla luce del sole. Considera che qui dove vivo io ci si conosce tutti, e la Romagna è solo per certi versi la terra del divertimento e della libertà. Per altri aspetti è ancora dominata da un bigottismo ed una ipocrisia palpabili.”
Non c’è polemica nella parole di Sandra, che racconta ciò che vede e sente senza peli sulla lingua ma anche senza alcun astio nei confronti di nessuno.
Prosegue Sandra: “il problema principale sono i miei, anche per questo non siamo ancora uscite allo scoperto. Loro non hanno mai voluto accettare la mia natura, e alla fine per non far soffrire loro sto soffrendo io. Nel senso che mi sto limitando. Soprattutto mia mamma non ha mai fatto molto per capirmi e per agevolarmi anche nel raccontare ciò che sento, ciò che provo, per cui…tra l’altro io ho nascosto la mia sessualità anche durante la vita nel circuito, a momenti ho vissuto di qualche bugia per difendermi, del resto non ho trovato un ambiente in cui sentissi la fiducia e non mi sentissi giudicata.”
L’amicizia esiste?
“Sì, esiste, ma è davvero rara.”
Qual è la più grande tua soddisfazione ottenuta fuori dal campo o dal contesto professionale?
“Essere me stessa, credo di essere una persona genuina e sempre sincera nelle intenzioni. Quindi la soddisfazione più grande la trovo nella quotidianità, nei rapporti con gli altri, e nei sorrisi ricambiati. E poi di avere dei valori che la mia famiglia mi ha inculcato, di rispetto per gli altri e di grande onestà intellettuale.”
Ti riconosci tuttora delle fragilità emotive?
“Beh, il mio carattere è questo, col passare degli anni sono diventata più decisa, più determinata. Nonostante ciò continuo a pensare prima agli altri che a me stessa. Forse dovrei avere un po’ di sano egoismo in più.”
C’è un difetto che non sopporti proprio del prossimo?
“Non sopporto la gelosia e l’invidia. Posso comprendere un pizzico di gelosia nel rapporto sentimentale, ma non nelle relazioni professionali o di amicizia. Purtroppo di invidia mica ce n’è poca in giro…”
Sei felice Sandra?
“A momenti sì, ho degli sprazzi di felicità, degli attimi e delle situazioni sublimi. Ho voglia, però, di godermi prima o poi una felicità ancora più totale.”
Al momento chi è la persona più importante della tua vita?
“Senza indugio la mia compagna, qui non c’è dubbio, 14 anni insieme bellissimi.”
Tu hai conosciuto tanti luoghi, dove vivresti se non in Italia? E c’è un posto che ti è rimasto nel cuore?
“Gli Stati Uniti sono il top, la Florida in particolare. Mi sono innamorata della Florida quando giocavo, un bel clima, un atmosfera magica, bellissima. Ci sono stata quando allenavo una ragazza danese, conosciuta a Palermo: sono rimasta sei mesi, poi lei ha smesso di giocare perché si è infortunata piuttosto pesantemente prima al polso poi ad una spalla ed io sono rientrata.”
Hai seguito anche Francesca Lubiani, capace di arrivare tra le top 60, come mai poi non è salita ancora?
“Allora, lei in realtà ha sempre avuto come suo allenatore il suo babbo, Paolo Lubiani, ebbe degli screzi con lui e quindi mi chiamò a collaborare per 6 mesi. Abbiamo provato e ci siamo allenate benino, ma Francesca era in un momento in cui le motivazioni non erano più quelle che servono per “sfondare”. Non ci “credeva” più tantissimo, quindi è finita così. E’ stata una situazione momentanea, le ho dato un aiuto ma serviva più tempo e più voglia per fare meglio. Sicuramente aveva una buon timing, giocava a due mani sia diritto che rovescio, con la sinistra come mano dominante, avrebbe potuto fare ancora di più in carriera.”
Come è attualmente la tua giornata tipo?
“In inverno lavoro a Cesena, dalle 14 alla sera tardi sto sui campi, seguo sia gli agonisti, sia la SAT, lezioni private, adulti, faccio di tutto e di più. La mattina invece è dedicata al lavoro amministrativo e a tutti gli impegni personali.”
Hai seguito altri ragazzi professionisti direttamente?
“Tre o quattro anni fa avevo cominciato a seguire una ragazzina russa, Yana Kochneva, era un buon prospetto ma aveva una mamma forse troppo presente. Avevano voglia e soldi da investire come famiglia, e poi si sono trasferiti all’accademia dei fratelli Piccari ad Anzio, ma una serie di infortuni l’ha fermata. E’ una ’98, l’ho incontrarla poco tempo fa e mi ha detto che stava riprendendo dopo un infortunio alla spalla. Sai, i soldi sono importanti ma vanno saputi spendere bene; tra l’altro la sua mamma aveva un carattere piuttosto complicato, mentre Yana era più sensibile anche se aveva le idee chiare. Capitava che si sfogasse con me per certi atteggiamenti della mamma nei suoi confronti e una volta mi disse che doveva accettare tutto perché i soldi li aveva la mamma. Yana voleva fare la tennista e doveva subire. Anche per questo la nostra collaborazione poi non è proseguita oltre, perché a me non va di fare la portaborse, voglio incidere sulla crescita di una atleta. Di portaborse in questo ambiente ne trovi quanti ne vuoi, e immagino ne abbiano trovati.”
Perché la FIT non sfrutta personalità come la tua per migliorare la propria struttura?
“Io posso parlare per me. La disponibilità l’ho sempre data, mi piacerebbe allenare un gruppetto di ragazzine sotto l’egida della FIT, ma non sono il tipo che si propone direttamente chiedendo di qua e di là. Non è che ci sia stata molta considerazione nei miei confronti, né riconoscenza: io ho giocato per la FIT dando il massimo in ogni competizione ed in ogni circostanza, per cui qualcosa di più mi aspettavo. Per altro non ho mai discusso con nessuno. Comunque non mettiamo mai limiti alla provvidenza, senz’altro il curriculum ce l’ho buono. E la passione pure.” E sorride ancora Sandra.
E una accademia tutta tua?
“Non sono ancora riuscita a trovare la situazione giusta. Il circolo giusto. L’idea campeggia nella mia testa da un po’. E non servirebbero nemmeno strutture enormi, 3 o 4 campi sono sufficienti. C’è anche un po’ di chiusura nei circoli, parlo in generale, poca voglia di investire, qualcuno ha paura di perdere privilegi, clienti, potere… Mi piacerebbe anche tornare a girare il circuito, non è qualcosa che mi spaventa, anzi mi stimola molto. Trovassi un gruppetto di agonisti motivati e decisi, disposti ad investire su se stessi, penso di poter fare veramente tanto per loro e crescere insieme…
Il giorno che Sandra aprisse una accademia tutta sua, con la passione e la competenza che possiede, farebbe davvero il boom secondo noi. Potrebbe essere la versione femminile dell’accademia francese di Mouratoglou, costruita dal coach transalpino di origine greca inseguendo un suo sogno, e nata dal nulla, senza per altro un bagaglio di esperienza diretta nel circuito come nel caso di Sandra Cecchini. Se dovessimo scegliere uno slogan che rappresentasse Sandra e il suo modo di intendere la crescita professionale nel tennis le parole chiave sarebbero intensità e sensibilità. “Intensità” perché con lei si lavora tanto su tutti gli aspetti tecnici, tattici ed atletici; sensibilità per la grande carica umana che possiede e la capacità di comprendere anche i ragazzi più chiusi caratterialmente.
Hai sotto mano attualmente qualche ragazzo interessante?
“Voglio citare una bimba del 2005, Viola Mezzogori, è una bambina di Cesena ed è bravina, ma ce ne sono altri eh…”
Quale è la prima caratteristica che noti in un ragazzino?
“Quando metti la racchetta in mano ad un bambino per la prima volta di solito liscia le prime palle che gli mandi: se ne trovi uno che invece la prende al primo colpo, beh, quello lì ha delle attitudini. Guardo anche come si muove, come corre, in che maniera appoggia i piedi. Per cui direi che guardo la coordinazione occhio-mano e l’equilibrio per le gambe. Non è detto che poi giocherà bene, però parte avvantaggiato. Sai cosa hanno i ragazzini di oggi oltretutto? Non si sanno divertire, hanno bisogno di aiuti esterni, dei genitori o dei maestri, e non sono capaci di giocare col nulla come 30 o 40 anni fa. Come ti dicevo prima bisogna che abbandonino i divani dove vengono a volte relegati dai genitori. Ma è un discorso ad ampio respiro, dovrebbe cambiare la società.”
Nel periodo storico in cui tu giocavi cade il muro di Berlino, avvicinando culturalmente in maniera definitiva oriente e occidente europei. Era il 1989. L’universo tennistico si è accorto che stava cambiando per sempre il mondo oppure no? E le colleghe dell’est erano differenti da noi occidentali quando giocavi tu?
“Sai che faccio fatica a risponderti? Direi che anche le poche ragazze dell’est che giravano il circuito, poche rispetto ad oggi, erano piuttosto serene. O così’ sembrava. Nessuna mi ha mai parlato di difficoltà ad uscire dal proprio Paese, o storie del genere. Vero è che la Navratilova ha avuto dei problemi, anche grossi, non è potuta poi tornare in Cecoslovacchia. Ricordo l’ungherese Andrea Temesvari che poi si è trasferita in America, però non ha mai manifestato insofferenza per il suo Paese di origine.”
Una curiosità: in internet gira la voce che tu abbia recitato in un film di Pupi Avati, ma è vero?
“Un film l’ho fatto, è vero, ma non era per Pupi Avati. Avevo 11 anni, il film è del ’76, ovviamente interpretavo il ruolo di una ragazzina, e si intitolava “Albert e l’uomo nero”, era una produzione RAI per la tv, uno di quegli sceneggiati che andavano all’epoca, si girava in campagna qui vicino, a Ravenna mi sembra. Ma non ricordo molto altro se non che questa ragazzina doveva rubare qualcosa in dei pescheti mi pare, e poi la prendevano. Tutto qui.”
Ci salutiamo con Sandra e ciò che resta nel nostro cuore è la pienezza di una conversazione che non è stata solo una intervista, ma una sintonia di anime e uno scambio di opinioni e racconti personali come vecchie amiche. La mitica campionessa di Cervia che, ricordiamolo ancora, è la più titolata finora della storia del tennis italico è una donna solare, mai polemica, determinata e decisa, con le idee chiare e finalmente più serena. Pronta a spiccare il salto come Coach di fama internazionale. Le auguriamo il meglio, si merita, Sandra, di allenare un tennista top, ha l’esperienza giusta e quella umanità che potrebbe essere un rifugio ed un supporto enorme nelle lunghe settimane di solitudine che ogni tennista professionista è costretto ad affrontare. Vamos Sandra.
Autore Alessandro Zijno